IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha proninciato la seguente ordinanza. L'art. 4 primo comma, n. 7, della legge 7 agosto 1982, n. 516, sanziona la condotta del contribuente "titolare di redditi di lavoro autonomo di impresa", il quale "al fine di evadere le imposte sui redditi o l'imposta sul valore aggiunto o di conseguire un indebito rimborso ovvero di consentire l'evasione o indebito rimborso a terzi", "redige le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione annuale dei redditi ovvero il bilancio o rendiconto ad essa allegato dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi del reddito tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione". Si tratta di norma, come e' noto, di significato non univoco per la difficolta' di interpretazione che deriva non soltanto dalla complessa struttura sintattica, ma anche dall'uso di espressioni di senso non sufficientemente determinato ("alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione") e di termini ambigui ("simulando" e "dissimulando"). In particolare i concetti di "dissimulazione" di componenti positivi e di "simulazione" di componenti negativi del reddito hanno dato origine a opinioni contrapposte, comprendendo gli uni nella "dissimulazione" la mera omessa indicazione e nella "simulazione" la mera enunciazione di componenti dal reddito, esigendo gli altri la presenza di un quid pluris idoneo a connotare di fraudolenza la condotta dell'agente. Entrambe le tesi sono sostenibili, e sono state in effetti sostenute con seri e validi argomenti contrapposti. Tuttavia, mentre la seconda non pone problemi sul piano della legittimita' costituzionale della norma, non altrettanto puo' dirsi della prima, la quale in sostanza ritiene punibile sulla base della disposizione in oggetto la semplice infedelta' della dichiarazione. Infatti, ove la dissimulazione di componenti positivi del reddito potesse concretarsi in un mera omissione, e la simulazione, simmetricamente, in una semplice mendace indicazione di componenti negativi, la condotta in esame si sovrapporrebbe, in pratica, alle ipotesi contravvenzionali dell'art. 1: la qual cosa non soltanto determinerebbe gravi contraddizioni sistematiche (perche', essendo le predette contravvenzioni soggette a soglia di punibilita', al di sotto della stessa soglia potrebbe, paradossalmente, subentrare la punibilita' a titolo di frode) ma porrebbe la norma in contraddizione col fondamentale principio di uguaglianza, per l'irragionevole disparita' di trattamento, consistente nel sanzionare lo stesso comportamento, l'infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile, e grave delitto quando concerne redditi di lavoro autonomo o d'impresa, derivanti da cessione di beni o prestazione di servizi. Secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, una disposizione che ammette piu' interpretazioni non e' soggetta a caducazione quando solo una delle interpretazioni confligga con la Costituzione: ma l'interprete e' impegnato a far applicazione di quello o quelli fra i possibili significati che, per essere conformi al dettato costituzionale, consentono la salvezza della norma. Di conseguenza, per elidere ogni dubbio sulla costituzionalita' rispetto al principio di uguaglianza dell'art. 4 n. 7 citato, e' sufficiente (e necessario) adottare tra le possibili interpretazioni quella che esige un quid pluris rispetto alla mera omissione o alla mera enunciazione di componenti del reddito per integrare il delitto secondo il pensiero - sopra pressoche' testualmente riportato - espresso da Corte costituzionale, 16 maggio 1989, n. 247. E' tuttavia necessario riconoscere che la giurisprudenza di merito prevalente e la giurisprudenza di legittimita' sono orientate in senso opposto, sicche' ogni diversa interpretazione appare sostenibile sul piano teorico, ma (ormai) perdente sul piano dell'applicazione giurisprudenziale. Cio' dimostra il fatto che pure dopo la citata sentenza della Corte costituzionale, la Corte di cassazione (Cass. pen. sez. III; 26 settembre 1989, Vangelisti) ha ribadito il proprio rigoroso orientamento, non solo sulla base della non vincolativita', per il giudice ordinario, delle sentenze costituzionali di rigetto e del carattere incidentale dell'interpretazione della Corte costituzionale sul punto, ma soprattutto affermando l'avvenuta confutazione, nel merito, delle argomentazioni addotte dal giudice delle leggi. E' innegabile, a questo punto, che l'indirizzo giurisprudenziale in discussione debba essere considerato "diritto vivente", e che la costituzionalita' dell'art. 4, n. 7, rispetto all'art. 3 della Costituzione vada ormai verificata non alla stregua dei possibili diversi significati della norma, ma con riferimento a quell'unico che si e' concretamento imposto nella giurisdizione: con il risultato inevitabile di ritenerne l'illegittimita' sulla base dei medesimi argomenti enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza piu' volte citata e che questo giudice fa propri. Quanto alla rilevanza della decisione nel presente giudizio, va premesso che il punto e' limitato alla dissimulazione di componenti positivi del reddito, poiche' le pretese simulazioni di componenti negativi sono state anche dal pubblico ministero ritenute insussistenti e tali sono effettivamente, derivando in un caso dalla (solo parzialmente) contestata ammortizzabilita' di cespiti, e nell'altro da un errore imputabile a terzi: e la rilevanza e' indubbia, dovendosi in caso di accoglimento della questione di costituzionalita' prosciogliere l'imputato, in caso contrario disporne il rinvio a giudizio.